Ricordo il sapore delle mattine a casa da scuola della mia
infanzia.
Quella strana atmosfera condita dalla consapevolezza di fare
qualcosa di diverso dal solito.
Le atmosfere sono tutte diverse. Come quando in attimi
imprevisti di giorni ordinari, guardando le strade quiete e la luce delicata
del sole autunnale, d’improvviso si pensa “sembra domenica”.
Oggi il sapore è ancora diverso, un gusto agro condito dal
suono della pioggia e dal rombo rotolante dei tuoni.
A casa, di nuovo.
Il pensiero ai tappetini vuoti, all’incenso spento, alle
coperte e cuscini in attesa di qualcuno da supportare e scaldare durante l’abbandono
del rilassamento.
Immagino la stanza fredda e scura, come le notti d’inverno.
Non ritengo mio compito commentare in alcun modo le misure
scelte per affrontare questo evento planetario, non mi compete giudicare l’altrui
operato anche se si ritorce sulla mia vita e su quella di centinaia, migliaia,
di altri individui. Nessun giudizio avrebbe potere di modificare alcunché,
avrebbe solo il potere di dare fertilità al terreno delle polemiche. E le
polemiche, si sa, ad altro non servono che ad avvelenare i cuori.
Non amo le frasi fatte. Gli “andrà tutto bene” disegnati a
colori sui balconi della città mi ricordano i tempi delle bandiere di pace
appese e svolazzanti nei cieli pieni di rabbia di quelle stesse persone che li avevano
affissi. Voci di ragazzi che ricordo nei cortei a cantare e ballare senza poi
riuscire a sostenere la pace nelle loro famiglie, le stesse voci che divenivano
odio nei confronti di un guidatore troppo lento o distratto, di un’inezia del
quotidiano.
Mi fermo a riflettere sugli sguardi spaventati della gente,
nascosti dietro mascherine ed occhiali appannati dal loro stesso respiro caldo.
Sguardi che indagano l’attorno in cerca di qualcuno da incolpare, da additare. Come
gatti feriti pronti a graffiare.
Non mi compete esprimere il mio pensiero riguardo al perché di
tutto questo. Ritengo che la ricerca della fonte del problema sia in realtà
solo secondaria nei confronti della soluzione alla sofferenza che il problema
stesso crea.
Quando mi ruppi il braccio, anni fa, non aveva senso stare a
recriminare sui perché e percome dell’accaduto. Il primo passo è steccare. Risolvere
il problema più immediato affinché non ne crei di ulteriori. Ed una volta
modificata la struttura del reale da affrontare con un braccio solo a nulla
serve lamentarsi di come sia difficile o complicato rispetto al prima. In quel
momento di disagio ci si ferma e si osserva cosa c’è da imparare. Imparare a
svolgere compiti con la mano mancina. A vestire un braccio ingessato e dolente
con abiti di zii dimenticati nell’armadio e scoperti di taglia perfetta. A lasciarsi
aiutare nello svolgere gesti ritenuti ovvi, come il lavare e asciugare i
capelli. Ho dovuto chiedere aiuto per richiudere i jeans dopo essere stata in
bagno… a fare a meno di cose ritenute scontate prima, e superflue dopo.
Oggi il nostro braccio rotto è questa condizione di
irrealtà. Le cose che possiamo imparare sono milioni.
Non significa rassegnarsi agli aventi a capo chino ma saper
cogliere l’utile in ogni circostanza in piena coscienza di se.
Le situazioni sono infinite e dalle molteplici
sfaccettature. Dall’assenza di lavoro causa sospensione al ritmo frenetico di
chi svolge mansioni particolarmente richieste oggi.
Trovarsi bloccati in casa e soli, dovendo così fronteggiare
se stessi nel tempo dilatato dell’oggi, senza lasciarsi prendere dall’inerzia,
dalla paura, dal senso di vuoto e noia.
Trovarsi bloccati in casa fianco a fianco alle proprie
famiglie che nei ritmi del mondo incrociavamo di sfuggita nei corridoi,
salutandoci appena prima di andare a dormire e scoprendoli individui
sconosciuti e da poter esplorare come labirinti di gioco.
Senza stipendio. La paura del domani che stringe le carni di
chi ha i propri figli sulla soglia del mondo intenti a formare loro stessi per
affrontare le sfide degli adulti. Dover tirare la cinghia perché oggi più di
ieri l’incertezza si fa concreta e bussa alla porta ogni mattina ricordandoci
che non ci sono certezze.
Davvero dovremmo farci prendere dallo sconforto? Di quante
cose possiamo fare a meno? Certamente ci viene richiesto un ricalcolo delle
nostre esistenze ricalibrandole su un oggi diverso dal passato e senza poter
prevedere il futuro. Uno studio sull’impermanenza un po' forzato forse perché ci
coglie impreparati, spiazzati, legati alle nostre abitudini e sogni.
Come edere ci siamo avvolti strette a rami di alberi che
abbiamo creduto eterni dimenticando così i confini del nostro essere mescolato strettamente
a cortecce che non ci appartengono, a radici forti che credevamo incrollabili, e
che ora ci vengono tolti senza quasi preavviso e a volte completamente. Ci ritroviamo
al suolo come abbandonate, nella malinconia dei rami alti che ci tenevano
vicini al cielo ed al calore del suolo. Ci viene richiesto di attingere alle
nostre sole forze che abbiamo dimenticato, ma non perduto. Il nostro potere ci
attende, immutabile e completo, nella profondità della nostra reale essenza. Richiede
solo la nostra attenzione, che il nostro sguardo lo colga e che la mente lo
riconosca per poterlo riportare alla luce ed utilizzare.
Essere a terra non è un male, è un’opportunità di porsi in
discussione. Di vedere nuovi aspetti di noi stessi, di reinventarsi, riscoprirsi.
Fare cose mai pensate. Cose desiderate. Cose dimenticate.
Fare. Fare di azione e fare nel restare fermi ad ascoltare,
a godere dell’assenza del fare stesso.
Commenti
sono doni preziosi!!
Marcella